SCRIVERE CON LA LUCE: LA FOTOGRAFIA SECONDO MIRCO LAZZARI
Articolo, intervista e gallery dedicata al celebre fotografo
Viaggio alla scoperta di un artista dell'immagine
“Scrivere con la luce” è la traduzione dal greco del termine fotografia ( phôs / luce e graphis / grafia o scrittura ): un’arte che si connota da sola come sublime momento di sintesi tra l’accadimento in sé ( l’oggettività della realtà che ci circonda ) e l’estro, il talento di chi sa vedere oltre alle capacità della propria vista, catturando l’anima stessa delle cose, la loro luce – appunto – rappresentando la realtà in un modo cui nessuno aveva mai pensato prima e che eppure appare a tutti, alla prima occhiata, di senso pienamente riconoscibile.
La premessa è doverosa quando ci si accinge ad ammirare da un punto di vista non solo estetico ed emozionale ( che già ce ne sarebbe abbastanza per raccontare di interi mondi ), ma vorrei aggiungere anche “didattico” – nel senso di “materia di studio e conoscenza“ - lo stile personalissimo di Mirco Lazzari.
Le sue fotografie fecero breccia in me attraverso le riviste specializzate per la loro efficace capacità di coniugare il senso della velocità e le emozioni dell’attimo fuggente in fotogrammi palesemente ricavati da tempi di posa “impossibili”, lunghi a dismisura rispetto ai canoni tradizionali ( non dico ortodossi ) della fotografia sportiva e degli sport dei motori in particolare.
A questo si aggiungeva, non secondario, il fascino di immagini dal taglio stupefacente, a volte persino provocatorio nella loro forza innovativa, tanto da apparire immediatamente come l’opera di qualcuno assolutamente votato ad una ricerca stilistica convinta e appassionata. Le sue foto non si rifacevano agli schemi usuali che avevo apprezzato, ad esempio, ammirando le immagini altri grandissimi come Angelo Orsi, o quelle di Daniele Amaduzzi, eppure colsi immediatamente provenire da loro un richiamo fortissimo, il fascino delle cose che si sono sempre sognate e che d’improvviso si trasformano in realtà.
Questo nuovo incontro con Mirco ( il primo, per chi se lo fosse perso, è disponibile a questo link ) prende spunto dalla sua innata creatività e cerca di dare significato alla forma della sua fotografia, di leggere – cioè – cosa c’è di tanto speciale nella sua capacità di scrivere con la luce…
LA MOSSA VINCENTE
La prima cosa che da profano una persona guarda quando ha davanti a sé una fotografia di moto o auto da corsa è la qualità della messa a fuoco dell’immagine. Se le scritte degli sponsor si leggono senza difficoltà la foto è buona, altrimenti si tratta di una foto scadente.
Vi suona familiare questo ragionamento?
Racconterò in proposito un aneddoto: nel 2008 realizzai una mostra personale con immagini dal mondo della musica e delle corse. Il titolo della mostra era "Tracce di colore" e si rifaceva al concetto base delle fotografie esposte, dove era il colore, la sua forma, a dare sostanza di contenuto ai vari soggetti fotografati. Tra le foto esposte ve n’era una dedicata alla Ferrari ( la vedete qui ), una foto “mossa” realizzata nei test di Monza del 2005: uno dei visitatori volle sapere perché non avevo scelto una foto migliore da esporre, anche perché non si riusciva nemmeno a capire chi era il pilota che guidava la macchina.
Quella osservazione, per alcuni versi comica, era comunque degna di considerazione in quanto mi offrì la possibilità di suggerire all’interlocutore una chiave di lettura diversa per leggere certe immagini e rappresenta il punto di partenza di questa prima tappa del viaggio alla scoperta della fotografia di Mirco Lazzari.
La domanda è: si può considerare riuscita, da un punto di vista non solo tecnico ma anche estetico, una foto mossa? ( e sarebbe anche il caso di sottolineare “volutamente mossa”? ).
La risposta è tanto ovvia quanto intrigante: certo che si può, tutto dipende da che cosa si vuole rappresentare e trasmettere con il mosso, ovvero il mosso è lo strumento attraverso il quale viene data compiutezza di senso all’immagine.
Non si tratta più di stabilire se una foto è ben riuscita perché perfettamente nitida, bensì è necessario rovesciare il criterio di analisi e domandarsi: se il fotografo l’ha fatta mossa che motivo aveva di farla così, dando per scontato che l’ha fatta così apposta?
Se partiamo da questa prospettiva ci rendiamo conto immediatamente che i termini della questione si fanno improvvisamente più chiari e la risposta più vicina.
Cosa trasmette una foto mossa? Di solito una sensazione di movimento, di velocità, di tensione, di lotta… Esatto: tutte sensazioni che in una pista o ai suoi bordi esaltano lo stile di vita di gente che cavalca moto da oltre 200 cavalli e sfreccia a 300 km all’ora fianco a fianco con qualcuno che crede di poter andare più forte.
Il mosso diventa l’arma perfetta per raccontare la voglia di correre, di primeggiare: l’agonismo della lotta quasi selvaggia che ci sfreccia davanti agli occhi si trasforma, nelle immagini di Mirco Lazzari, in un dipinto dai toni vivi e ricco di contrasti, di lampi di luce accecante, immagini che paiono “danzare”, dotate di movimento proprio, sospese e quasi irreali eppure cariche di una forza espressiva tanto concreta da lasciare senza fiato.
La mossa vincente è proprio questa: farci percepire la velocità per quello che è, qualcosa che non si può afferrare e fissare in uno scatto che la viviseziona, ma invece qualcosa che si può solo intuire, sfiorare… inseguire.
Una corsa pazza lungo l’asfalto di tutte le piste del motomondiale!
NEL CENTRO DEL MIRINO
Un’altra convinzione che sarà bene rimettere in discussione quando si ammirano le fotografie di Mirco Lazzari è quella che riguarda il posizionamento del soggetto principale all’interno della scena fotografata.
Se nell’analisi logica il testo di una frase può essere sinteticamente riassunto in 3 elementi: soggetto, complemento oggetto, predicato verbale, in una immagine scattata da Mirco gli elementi che concorrono a determinarne il significato non sono mai troppo scontati e la loro collocazione sulla scena avviene in modo da restituire un senso di stupore e scoperta.
Lo stupore si vedere rappresentati elementi noti e abitualmente caratterizzati da stereotipi riconoscibilissimi attraverso immagini che, soprattutto grazie ad un sapiente uso della messa a fuoco, ci sorprendono per la loro genialità mantenendo un alto livello di immediatezza.
Un po’ come se potessimo vedere le cose del mondo guardandole dalla parte delle radici e non camminando sopra un bel prato fiorito: se riuscissimo a farlo vedremmo probabilmente cose che non abbiamo mai neppure immaginato eppure seguiteremmo a vedere il mondo!
Ciò che colpisce maggiormente è proprio questo: nonostante la differente prospettiva utilizzata per riprendere il soggetto principale, riconosciamo immediatamente il messaggio contenuto nell’immagine, come se ce lo avessimo già avuto dentro di noi ma non avessimo mai trovato il tempo o la fantasia per accorgercene.
Così capita che la mano destra di Jorge Lorenzo che imita l’apertura del gas o che il taccuino pieno zeppo di appunti di un giornalista ci raccontino una storia che neppure i volti messi a fuoco correttamente di Jorge e Valentino ci avrebbero saputo raccontare.
Si tratta di una scelta difficile e rischiosa da adottare per un fotografo che lavora in presa diretta, in quanto si tratta di catturare l’attimo fuggente cercando di raccontarlo senza l’ausilio di didascalie.
Tutto ciò rimanda ad una padronanza tecnica e a una capacità di lettura degli eventi davvero complete. In queste immagini Mirco afferma fortemente il principio che per essere protagonisti non occorre essere personaggi famosi, basta essere “una mano” o “un taccuino”.
La vera differenza la fanno la prospettiva e l’attribuzione di senso che siamo abituati a dare alle cose senza che ci vengano spiegate.
Con i suoi click Mirco ci ricorda che bisogna sapere vedere oltre le evidenze e che i piccoli particolari possono essere ancora più eloquenti dell’insieme delle cose.
MA CHE BEL TAGLIO!
Strettamente connesso alla logica del punto di messa a fuoco possiamo annoverare l’operazione del “taglio” dell’immagine.
Per i puristi della fotografia il taglio è esclusivamente quello operato nel momento in cui viene scattata la foto. In pratica, il fotografo deve essere in grado di programmare il risultato dell’immagine che sta per realizzare valutando con attenzione e rapidità le molte variabili che concorrono a determinare il risultato finale: dall’angolo di ripresa del soggetto alle condizioni di luce, senza dimenticare - ovviamente - quel tocco di creatività che differenzia gli scatti personali da quelli governati da automatismi puramente meccanici.
Personalmente sono convinto che - soprattutto con l’avvento del formato digitale ( molto più facilmente soggetto a correzioni e aggiustamenti grazie ai numerosi programmi di grafica ) - questa opinione debba essere rivista o quanto meno rivisitata.
L’estro e la creatività del fotografo possono trovare nel lavoro di post produzione una gratificazione a volte pari a quella provata nello scattare le immagini.
Non sempre, infatti, l’attimo fuggente - così come siamo riusciti a fissarlo in immagine - ha le dimensioni, la profondità e l’incisione ( oltre che mille altre qualità ) che avevamo pensato di trovarci: a volte questo può dipendere dal formato stesso del sensore ( o della pellicola ), altre volte può capitare che meditando a posteriori su di un’immagine si scoprano potenzialità che in presa diretta non era stato possibile esplorare. La cosa davvero importante è non perdere di vista l’idea di base: trasmettere emozioni in chi osserva.
Inutile sottolineare come nella fotografia di Mirco Lazzari il taglio delle immagini sia governato da un’assoluta e costante voglia di ricerca che non può lasciare indifferente chi osserva.
Non si tratta di una volontà di stupire fine sé stessa ma di una vera e propria filosofia dell’immagine, che deve poter raccontare a chiunque - anche chi non saprebbe riconoscere i piloti o le moto ritratte - un senso di appartenenza, come se ci si potesse ritrovare “dentro” l’immagine, non più solo spettatori ma attori, noi stessi fotografi al pari di Mirco, capaci di vivere e capire le emozioni di quando il suo dito e il suo occhio catturano la realtà assecondandone l’ispirazione. Il tutto si traduce in immagini dal forte impatto emotivo, dove i rapporti tra primo piano e sfondo, tra movimento e forme, tra spazio e materia producono un’alchimia vincente che testimonia del perfetto equilibrio stilistico raggiunto. In questo equilibrio, tuttavia, la creatività trova conforto nella dinamicità del taglio e ci permette di gustare la sensazione del nuovo anche quando abbiamo imparato a riconoscere lo stile di Mirco.
LUCI DELLA RIBALTA
L’espressione rubare la scena è una felice sintesi del concetto di protagonismo insito in ogni sport, sia individuale che di squadra.
L’ansia e il desiderio di primeggiare sono motivazioni necessarie ma non ancora sufficienti a spiegare la rischiosa professione di piloti e centauri: c’è, oltre alla volontà di sfidarsi e di battere il cronometro, un piacere più interiore, oserei dire romantico, che nel corso degli anni ha saputo rendere leggendarie le imprese di numerosi piloti, ben al di là delle loro qualità squisitamente tecniche e agonistiche. Basti pensare a personaggi come Tazio Nuvolari, Gilles Villeneuve, Ayrton Senna e - nel campo motociclistico - a Mike Hailwood, Giacomo Agostini e - nei tempi moderni - Valentino Rossi.
Seppur in epoche e con modalità differenti questi piloti, questi uomini, hanno rappresentato nell’immaginario collettivo di molti appassionati un punto di riferimento importante. Grazie al racconto delle loro imprese o, più semplicemente, del loro modo di essere è stato possibile creare una sorta di immedesimazione tra il campione e l’appassionato.
Raccontare le gesta dei campioni così come i grandi eventi storici è stato da sempre patrimonio di giornalisti, fotografi e cineoperatori ( una volta si diceva inviati speciali ).
Al giorno d’oggi l’avvento della tecnologia digitale e di internet hanno profondamente mutato gli scenari dell’informazione.
Tutto viaggia in rete e nella rete tutti possono viaggiare, tanto che alcuni tra i siti più conosciuti e visitati al mondo propongono materiale assolutamente amatoriale, filmato da semplici appassionati o curiosi e caricato da loro stessi in rete.
Di fatto si è trattato di una rivoluzione nel campo delle comunicazioni e dell’informazione.
Tutto ciò ha profondamente influito sulla diffusione della conoscenza e nella conquista di nuove frontiere della libertà di espressione in molti paesi fino ad oggi isolati dalla comunità internazionale per motivi politici ( basti pensare all’importanza di internet durante la rivoluzione in Egitto o la repressione dei moti di libertà in Siria e in Iran ) ma ha anche determinato una rivoluzione nel modo di rappresentare gli eventi, soprattutto perché ha sdoganato l’idea che non è necessario essere dei professionisti per poter raccontare ciò che succede nel mondo.
Nell’ambito della fotografia sportiva questo è solo parzialmente vero, in quanto così come è importante ciò che si racconta, altrettanto importante è il modo in cui lo si racconta.
A questo punto della lunga premessa, riprendo un termine usato all’inizio, quando ho definito piacere romantico il racconto delle gesta dei campioni del passato. Oggi questo aspetto romantico rivive ed è rintracciabile - a mio avviso - nell’epica drammaticità dell’uso delle luci di scena, prese a prestito dagli elementi naturali e fissate nel fotogramma come entità vive e pulsanti.
Queste luci a volte intense, a volte tenebrose, sembrano raccontarci una sfida che va oltre alle dimensioni agonistiche, una sfida nella quale sono gli elementi stessi a richiedere un pedaggio di fatica e di onore.
Come anticipato all’inizio di questo capitolo esse cercando di rubare la scena in realtà offrono a Mirco Lazzari una prospettiva persino seducente con la quale rappresentare il fascino della sfida.
Il centauro che sfreccia al tramonto inghiottito dalle nubi minacciose non ci ricorda, forse, un cavaliere in marcia verso il nemico da affrontare in battaglia?
E la sagoma della Ducati di Stoner che sembra emergere dalla notte più nera non è forse paragonabile all’eroe vendicatore che sopraggiunge quando tutto sembra ormai perduto?
In queste 2 immagini, così come in quelle dal tenore simile che trovate nella gallery, si respira una sensazione di mistero e suspence che le rende paragonabili ai fotogrammi di un film di Hitchcock, dove tutto trova spiegazione solo ed esclusivamente se si sanno cogliere gli indizi.
INDISCRETO!
Il paparazzo non è propriamente un artista dell’immagine, eppure le sue fotografie sono tra le più gettonate nell’ambito dell’editoria.
In effetti qualcosa di buono, se così si può dire, c’è anche nel suo lavoro, quantomeno a livello di stimolo di base: raccontare la vita di personaggi famosi attraverso scatti “rubati”.
Il paparazzo classico è un po’ fotografo e molto spione: per lui l’unica regola valida è documentare un evento ( meglio se trasgressivo ), non importa se con stile, purchè sia evidente alla prima occhiata il senso dell’immagine. Il risultato si chiama scoop e ha un seguito non indifferente tra gli aficionados del gossip, tra chi si nutre delle vite degli altri magari per coprire qualche vuoto nella propria.
Il Fotografo con la F maiuscola fa un altro mestiere, e quando anche il suo obiettivo cattura momenti di intimità ( anche soltanto di qualcuno da solo con sé stesso e i propri pensieri ) lo fa con l’intento di raccontare un’emozione, uno stato d’animo, una situazione con l’occhio sì indiscreto di chi osserva ma anche con il taglio dell’artista.
Non basta fotografare “di nascosto”: occorre dare all’immagine l’armonia propria del racconto, il contesto di riferimento deve poter emergere come elemento portante del tutto.
Soggetto e sfondo arrivano e coesistere e a fondersi in un equilibrio sfumato, a volte filtrato da sfocature d’effetto, proprio come se la visione emergesse da dietro un velo di mistero.
L’utilizzo di teleobiettivi, di tempi di posa lunghi, di generose aperture di diaframma e - in ultimo - una sensibilità ISO elevata, donano a queste immagini un impatto assoluto, da autentico reportage.
Caratterizzate, inoltre, da giochi di colore e da mirabili ricerche di prospettiva e di luci, le foto indiscrete di Mirco Lazzari appaiono così naturali da essere assimilabili al ritratto, altro elemento che concorre a definirne il marchio di fabbrica.
SONO FOTOGENICO
Il ritratto, prima ancora che un genere, è a mio parere una filosofia.
Se pensiamo alla storia dell’arte in generale ci rendiamo conto che il ritratto ha avuto sin dall’inizio una funzione autocelebrativa ( nobili e potenti ), devozionale ( santi ), commemorativa ( defunti ).
Dietro a ciascuna di queste tre grandi tipologie del ritratto classico si nasconde un ricco apparato simbolico, tradotto in arte da pittori e scultori lungo l’arco di millenni e assurto a livello di vero e proprio genio nel Rinascimento italiano.
La storia della civiltà umana passa anche attraverso lo studio dei quadri che ci hanno lasciato in eredità artisti come Leonardo da Vinci, Raffaello, Tiziano, Velazquez o Goya: molto di ciò che abbiamo appreso sulla società di un tempo, usi e costumi, miserie e nobiltà, è legato allo studio di capolavori dell’arte pittorica.
Ma questa forma di racconto dell’umanità attraverso l’immagine non si è fermata neppure con il declino della pittura come rappresentazione artistica del mondo.
L’avvento della fotografia, anzi, ha dato nuovo slancio all’ideale di rappresentazione, non solo della realtà ma anche dell’io, permettendo ad un numero sempre maggiore di persone di lasciare un segno del proprio passaggio su questa terra.
La fotografia ha saputo trasformare la storia dell’umanità raccontando con sempre maggiore profondità e dettaglio i particolari del lungo viaggio, tanto da trasformarsi da strumento di documentazione in vera e propria arte visiva.
Mentre una volta l’essere ritratto era appannaggio di pochi ricchi e potenti o di alte cariche ecclesiastiche ( tutti coloro che potevano metter mano ai denari per potersi permettere i servigi dell’artista più rinomato dell’epoca ), con l’evolversi dei mezzi di comunicazione siamo tutti diventati potenziali soggetti da ritrarre.
A ben guardare l’evoluzione dei media ha stravolto in larga misura la filosofia nobile ed erudita che stava originariamente alla base del ritratto ( la volontà di seguitare a vivere dopo la morte fisica nel ricordo dei posteri ): oggi molti sono alla ossessiva ricerca dei così detti 15 minuti di notorietà e non si può negare che questa sia da considerare una delle principale cause della crisi di identità e di valori della moderna società.
Ma il ritratto, quello vero e di artistico spessore, diretto discendente della classicità della Monnalisa di Leonardo o del surrealismo di Dalì è un’altra cosa e anche in ambito fotografico non mancano gli esponenti di spicco.
In campo sportivo la ritrattistica proposta da Mirco Lazzari risponde perfettamente alle aspettative sollecitate da questa lunga premessa: il senso della profondità, l’alchimia delle luci, l’impatto emozionale, l’originalità dello sguardo con cui viene dipinto il soggetto, sono tutti fattori che concorrono a fare di ogni suo ritratto un’opera unica e irripetibile.
I suoi ritratti rimandano sovente ad un’espressione colta al volo eppure dal gusto fermo e sicuro come certe immagini realizzate in studio e posate.
Tra le tante qualità contenute in queste immagini mi piace sottolineare il gioco tra le luci e le ombre, una costante del suo modo di intendere la fotografia: questa forma di filosofia innata, applicato al volto umano, permette di trasmettere una carica di pathos altrimenti impossibile.
Come un film del brivido risulta molto più pauroso quando riesce a fare intuire il pericolo senza mostrarlo creando un’attesa angosciosa, così questa atmosfera di chiari e scuri, di volti in parte celati che pure paiono erompere alla luce con fragore, si traduce in viva emozione, come il tuffo al cuore dello svelamento improvviso. Come al solito, emozione e tecnica vanno a braccetto.
SPEED TRAP
La velocità è l’essenza delle competizioni motociclistiche, non ci vuole molto a capirlo. Rendere conto della velocità a chi non assiste di persona ad una gara di Moto GP o di Formula 1 è però una faccenda complicata: già guardare una corsa alla TV è un ripiego comodo ma non del tutto soddisfacente per il vero appassionato.
L’atmosfera che si respira ancora in autodromi tipo quelli di Monza e Imola è qualcosa di così speciale che bisogna esserci per capire.
Il compito di un bravo fotografo professionista, quindi, è anche quello di trasmettere questo genere di sensazioni che vanno oltre l’evento sportivo in sé, catturando nelle immagini frammenti di una scenografia e di un proscenio che non si esaurisce dentro il nastro d’asfalto della pista.
La missione è abbastanza complicata ma sufficientemente stimolante da rappresentare un valido punto di riferimento per tutta la durata di un weekend.
Le tribune, le colline e i prati che spesso incorniciano i circuiti, le reti di recinzione che proteggono gli spettatori lungo i rettifili, diventano luogo di osservazione e di attesa per lo scatto di immagini dal taglio aggressivo e originale.
Prendiamo ad esempio il momento della partenza di una gara di Moto GP: chiunque è in grado di capire si tratti del momento di maggiore tensione e, spesso, anche di pericolo di una corsa.
In quei fatidici secondi dell’accensione e dello spegnimento delle luci rosse del semaforo, si consumano sovente gli esiti stessi di una gara. La differenza tra una buona e una cattiva partenza può infatti essere rappresentata da una vittoria o da una sconfitta impreviste.
Per il fotografo può essere la stessa cosa…
In quei pochi secondi del VIA! le macchine fotografiche super accessoriate del fotografo professionista scattano a raffica sequenze interminabili di immagini: è la ricerca incondizionata del fotogramma perfetto, quello che potrebbe - da solo - dare un senso a tutta la sequenza. Come in un film vivisezionato al rallentatore, ogni fotogramma rappresenta un possibile candidato al titolo di foto dell’anno.
Spesso però - per fortuna! - durante le partenze non succede nulla di ciò che ci si era aspettato o temuto. Tutto fila liscio e la corsa prosegue con il suo fluire dinamico, sempre uguale e sempre diversa. Le foto scattate sono foto come tante, neppure troppo personali, ancorate come sono alla realtà oggettiva della partenza.
Ecco allora che entra in scena il colpo di genio: perché non scattare foto della partenza da lato pista invece che correre in fondo alla prima curva?
Riprendere i piloti di lato nel momento dello scatto, mentre schizzano dalle loro piazzole e saettano fuori dall’inquadratura, allontanandosi in un turbine di sgommate e tute colorate e movimenti di braccia e gambe, disponendosi a ventaglio nell’abituale gioco di sorpassi e cambi di traiettoria?
Naturalmente utilizzando gli amatissimi tempi lunghi e lasciando intravvedere scorci di tribune e di pubblico…
Tutto ciò non deve stupire più del dovuto, sebbene alla base della scelta vi sia un’indubbia dose di rischio e di coraggio.
Mirco è interessato a catturare lo spirito delle cose e delle persone, gli attimi che accadono veloci e rapidissimi fuggono, irripetibili nella loro magia, e lo fa raccontandoli per come sono, momenti di una storia che viveva prima dello scatto e che di sicuro seguiterà a farlo anche dopo.
Il suo desiderio non è tanto quello di catturare e fissare nel persempre ciò che accade ma di farlo muovere agli occhi di chi osserva, come se il tutto stesse accadendo proprio in quel momento.
VISIONI ARMONICHE
Se fino ad ora il focus del discorso era centrato su aspetti specifici ( il particolare ) dello stile fotografico di Mirco, è giunto infine il momento di analizzare le sue foto partendo dalla foto finita, così come ci appare al primo sguardo.
La gestalt, o psicologia della forma, tende proprio a considerare l’insieme ( la fotografia, nel nostro caso ) un elemento di valore superiore alle singole parti che lo compongono.
Ho tradotto questo pensiero, che trova applicazioni in infiniti campi del sapere umano, nel concetto di visioni armoniche. Mi sembra, infatti, che esso possa rappresentare al meglio la capacità di trovare - all’interno dei mille particolari che concorrono a formare l'insieme = immagine - quella sorta di equilibrio, di armonia che la rende perfetta.
Si ha la sensazione, osservando una di queste fotografie, di non essere neppure in grado di cogliere la differenza tra i vari elementi che la compongono: da subito è il quadro d’insieme che si impone, non solo ai nostri occhi ma più in profondità.
Ci si sente attratti irresistibilmente, e si sperimenta una sorta di piacere nel sentirsi sprofondare dentro l’immagine, catturati da una sensazione di benessere, come se l’armonia degli elementi avesse toccato la nostra anima.
Una volta goduto della vista d’insieme è interessante andare ad analizzare più nel dettaglio i contenuti, intraprendere cioè il viaggio inverso: si tratta di ritrovare quei riferimenti al particolare che abbiamo imparato a riconoscere nel nostro viaggio e che ci aiutano, ancora una volta, a definire lo stile personalissimo di Mirco.
Troviamo innanzi tutto 2 elementi caratteristici: il movimento e la forma.
L’immagine appare animata di vita propria, danza davanti ai nostri occhi ricomponendosi sempre in un equilibrio senza sbavature. Ci sembra di poter cogliere la velocità, la traiettoria, i nostri occhi seguono il movimento e proseguono la corsa oltre il bordo dell’immagine.
Si tratta di visioni suggerite da una sensibilità artistica che la tecnica ha saputo sostenere senza ridurle a puro esercizio di stile. Qui si incontra il respiro dei grandi spazi, la sinfonia che amalgama il suono degli ottoni con quello degli archi, l’orchestra che esalta i singoli strumenti e fa della fotografia un’arte di bellezza incomparabile.
Sapere dare ad una immagine l’equilibrio giusto per renderla armoniosa, avvicinandola così al concetto più elevato di visione, rappresenta per un fotografo un punto di arrivo nella propria personale ricerca stilistica.
E’ la sublimazione dell’arte in genere quando l’armonia interiore dell’artista trova la strada per coniugarsi con la sensibilità di chi osserva e ne fruisce. Un punto di arrivo dinamico, come tutte le conquiste della conoscenza, a sua volta punto di ri-partenza verso nuovi lidi.
LA FINE DEL VIAGGIO E UN NUOVO INIZIO
La fotografia di Mirco Lazzari non è solo questo, ma mi piace pensare che sia anche questo. Ho deciso di raccontare le sue foto dal mio punto di vista perché ho sempre amato esplorare la fotografia ( non solo quella sportiva ), affascinato dalle prospettive diverse dalla mia. I fattori che concorrono a determinare uno stile o una filosofia ( fotografica o di vita, poco importa ) possono essere evidenti o invisibili ma si traducono sempre in risultati. E questi, giusto o sbagliato che sia, si può cercare di interpretarli, per cercare di imparare cose nuove, per vederla da un altro punto di vista, per ricordarsi quanto è bello scoprire di essere diversi, non per farsi la guerra ma per apprendere cose nuove e capire meglio gli altri.
Questo viaggio è un po’ tutto questo e altro ancora, di sicuro un’occasione per conoscere meglio Mirco e scoprire cosa ne pensa lui di quello che ho scritto fino a qui. A lui la parola, ora...
" Sono davvero colpito dalla tua analisi, raramente mi è capitato di ritrovare nella lettura fatta da un osservatore esterno così tanti concetti che riconosco appartenermi e che stanno alla base del mio modo di intendere la fotografia. Non posso che essere felice di questo: lo spirito che caratterizza ogni mio scatto diventa così un linguaggio comune, condiviso. Io parlo attraverso le fotografie e sapere che questo messaggio arriva a chi le guarda sotto questa luce mi da una bellissima sensazione. Certo, tu hai costruito un’analisi approfondita che va oltre l’arte della fotografia, hai tirato in ballo la psicologia e la storia, hai suggerito una chiave di lettura molto alta, ma anche molto comprensibile. E’ come se la storia che racconto con le immagini ognuno potesse imparare a “vederla” attraverso i propri occhi. Che è proprio l’essenza della fotografia: vedere e riuscire a far vedere delle cose che nessun altro avrebbe visto! Cosa si può chiedere di più?
La prima cosa che voglio dire e anche con una certa forza è che il mosso è un’arte! Questo è assolutamente un punto fermo della fotografia, non soltanto perché la foto mossa rappresenta una delle mie fonti di ispirazione principale, ma perché “ il mosso” – così come ogni altra tecnica fotografica – presuppone da parte di chi lo realizza la consapevolezza di voler rappresentare il mondo non come appare a prima vista, ma come lo si vuole mostrare.
Per poter interpretare il mondo alla mia maniera utilizzo lo strumento macchina fotografica, la imposto su tempi lunghi ecc. ecc., ma non è che tutto si riduce ad una padronanza tecnica: la foto mossa deve avere un’anima sua, intimamente sua, qualcosa che traduca in vita una forma, dei colori che altrimenti sarebbero solo sbaffi di luce.
Pensa, ad esempio, all’arte di Picasso: può piacere o meno, il suo stile può lasciare incantati o suscitare indifferenza, ma nessuno può mettere in dubbio che egli abbia interpretato le cose del mondo, a partire dalle emozioni, secondo il suo personalissimo modo di vederle e sentirle dentro di sé. Questa è arte allo stato puro, Picasso ha mostrato una via, l’ha percorsa da cima a fondo, rinnovandosi nella genialità: quanti hanno pensato di poterlo imitare e hanno realizzato solo brutte copie della sua opera? Oppure lo hanno considerato semplicemente un visionario privo di vero talento?
Il “mosso” rappresenta un capitolo molto importante della fotografia: ci sono alcune regole che la caratterizzano da un punto di vista tecnico, e un bravo fotografo deve conoscerle, ma ce ne sono altre che differiscono da fotografo a fotografo, perché fanno parte del suo DNA, del suo modo di “sentire” e “vedere”. L’importante è che una foto mossa sia in grado di trasformare questo modo di sentire e vedere personale del fotografo, in qualcosa di fruibile anche per chi osserva, emozionandolo, facendogli sorgere delle domande, incuriosendolo, magari ispirandolo!
Una cosa è certa, comunque: non basta scattare con tempi di posa lunghi per pensare di realizzare dei buoni mossi, ci vuole l’alchimia degli elementi che descrivi nel tuo articolo e una grande voglia di sperimentare per scoprire il fascino delle cose che si muovono e che lasciano una traccia sul fotogramma…
Un’altra parola magica è “prospettiva”, tutto dipende dall’angolo con cui decidi di rappresentare una piega, una curva, un volto. Guardiamo tutti la stessa curva quando siamo a bordo pista a fotografare, siamo vicini tra di noi, ma non vediamo le stesse cose!
Fotografare non è una formula matematica, non è scattare la sequenza più veloce o centrata, assomiglia di più ad una tela da riempire che a seconda della sensibilità della pellicola ( quando c’era la pellicola, ma ora è tutto paragonabile anche con il digitale ), dei tempi di otturazione, del diaframma che si sceglie di utilizzare diventa un’immagine o un’altra completamente diversa. Il vero nocciolo della questione è sapere, capire, cosa si vuole realizzare prima di cimentarsi nell’impresa. Se per assurdo i fotografi appostati in una stessa curva scattassero tutti la stessa immagine, di chi è la responsabilità? Non certo della curva, credimi.
Non ci sono divieti in fotografia, ci sono sentieri da esplorare, quello sì. Se uno desidera comporre un’inquadratura particolare o fotografare il movimento dovrà per prima cosa studiare le curve di un circuito, imparare gli sfondi, capire il respiro da dare al fotogramma, scegliere cioè lo spazio da dedicare al pilota e alla moto e lo spazio da dedicare all’insieme, dovrà ragionare sui tempi da utilizzare e sulla profondità di campo, senza dimenticare di valutare con attenzione le condizioni di luce ambientale ( che in assoluto non sono e non devono essere un problema, ma uno stimolo a sperimentare ). Dovrà capire il movimento da imporre alla fotocamera assecondando quello della moto in pista, dovrà capire tutto questo e molto altro che dipende dal gusto personale e dalla voglia di scoprire cose nuove.
Si deve essere capaci di studiare le proprie foto con una giusta dose di autocritica se si vuole migliorare la propria capacità di vedere in anticipo il risultato. Il fotogramma, quando lo guardi dopo aver scattato, non ti deve far dire “ Che roba è che è venuta fuori? “, no, lo devi guardare e capire dove devi correggerti, magari allungando i tempi di esposizione, o anticipando lo scatto, oppure se hai fatto tutto come volevi e dovevi ti può far dire: “ Ecco, proprio quello che avevo pensato di fare! “.
Non si padroneggia mai abbastanza l’idea di scattare una foto piuttosto che un’altra, ma certo l’esperienza ti aiuta un sacco: in certe situazioni ci può essere la convinzione che la foto da scattare sia solo quella e nessun altra. Pensa ad esempio alla partenza: lo hai scritto bene tu, perdere la partenza è come entrare in sala al cinema quando il film è già cominciato, ti sei perso l’inizio e il resto rischia di essere svuotato di senso se prima è successo qualcosa d’importante che non sai o non hai visto.
Però questo non deve essere un freno al desiderio di fare foto diverse di una partenza: fotografare le moto che scattano dal fianco della griglia di partenza ti concede al massimo 2-3 secondi di tempo per scattare, poi tutte le moto se ne sono andate e sai che i colleghi appostati in fondo alla curva ce le avranno a fuoco per molto più tempo e da una prospettiva più ampia e immediata. Ma in quei 2 secondi, subito prima e subito dopo lo spegnimento del semaforo, cosa succede davvero in quegli attimi che si può tentare di raccontare da una prospettiva diversa? Ecco, credo che il gusto di questo genere di foto stia proprio nel trasformare una partenza qualunque, nella quale non succede niente di particolare per chi osserva dall’abituale prospettiva, in un evento speciale: è come se si fosse trascinati dentro la pista, insieme alle moto e ai piloti. Lo stesso vale per le foto fatte dalle tribune, in mezzo al pubblico, dove cerco di trasformare in immagine, in ricordo, quello che vedono gli spettatori.
Come mi ripeteva spesso Angelo Orsi, a volte è sufficiente cambiare lato della pista per ribaltare la visione delle cose e trasformare il risultato di un’immagine. Ma avrò modo più avanti di parlarti di questo, in quanto la sua affermazione è legata più di tutto all’idea di fotografia che abbiamo lui ed io, che ci pone su due lidi opposti, ma entrambi sinceramente ammirati per il lavoro dell’altro.
Ogni circuito offre infiniti spunti alla creatività del fotografo, basta saper tradurre in pratica l’idea di voler raccontare qualcosa di personale: l’interpretazione che io do di una curva o di una piega o di un volto è la mia personale visione di quell’attimo che catturo.
Certo, tornando in un circuito anno dopo anno è naturale che si abbia la sensazione di ripercorrere strade conosciute o già esplorate, è allora che si deve vincere l’impressione di sapere già come andrà ripresa quella piega o quella curva. Bisogna cercare di aggiungere qualcosa di nuovo a quello che ti suggerisce l’esperienza. Come mettere a punto una moto partendo dagli assetti provati l’anno prima ma affinando il tutto per andare più forte.
Però ripeto: questa situazione di “già conosciuto” ti espone al rischio di ripeterti, di fossilizzarti, rischia di convincerti di aver già spremuto tutto il succo buono, che quella curva la puoi fotografare solo come hai imparato a fare nel corso del tempo. Poi arriva un fotografo giovane, oppure qualcuno che lì, in quella postazione non ha mai scattato, e ti sorprende con delle immagini originali. Si torna al discorso della sensibilità individuale che a volte, come in questo caso, viene ancora prima dell’esperienza!
A volte mi è capitato di accorgermi di colleghi alle prime armi che mi pedinavano, se così si può dire, lungo la pista. Quando io mi fermavo in un posto a fotografare si fermavano anche loro, quando io mi spostavo si mettevano addirittura nell’esatto punto dove ero stato io fino ad un attimo prima a controllare per cercare di scoprire chissà quale segreto.
Sono situazioni che francamente non mi piacciono molto, ma non tanto perché pretendo di avere l’esclusiva di una certa inquadratura, ma perché non capisco il senso della cosa… Uno, specialmente se è un fotografo, deve sentire dentro di sé la motivazione a scattare in una certa maniera: non basta sapere che un altro fotografo ha scattato in quella posizione per trasformare le tue immagini in qualcosa di pregevole.
La variabili tra gli stili personali dei fotografi sono infinite, davvero c’è qualcuno che pensa che semplicemente fotografando dall’identico punto dove lo ha fatto qualcun altro si possano scattare le stesse immagini? Io non credo, almeno fino a quando non si riesce a comprendere, a leggere, vorrei dire intimamente lo stile di un fotografo. Forse allora ci può essere una specie di sintonia nel vedere le cose, nell’immaginarle: ma comunque si tratta pur sempre di qualcosa di posticcio, di non del tutto personale. Non è come ispirarsi alle foto del tuo fotografo preferito: in questo caso ti guardi le sue immagini sulle riviste, sui libri, su internet, ti fai un’idea del suo stile, cerchi di trarne spunti e ispirazione, poi prendi la tua macchina fotografica e vai a scattare da qualche parte, poi tiri le somme, scopri i tuoi difetti, ci riprovi, ti migliori… questo lo capisco, è un processo naturale.
Ad ogni modo devo anche dirti che uno di questi fotografi, del quale nel tempo sono diventato amico, un giorno mi stupì mostrandomi una sua foto scattata al famoso “cavatappi” di Laguna Seca: quando la vidi ti dico che rimasi un attimo perplesso, sulle prime pensai che volesse scherzare, mi stava mostrando una mia foto…
Invece l’aveva scattata lui, mi disse che mi aveva visto fotografare in quella posizione e mi aveva tenuto d’occhio per capire cosa ci trovavo in quel punto che nessun altro fotografo andava ad occupare, e così si mise a scattare cercando di catturare la mia stessa visione.
Devo dire che in quell’occasione rimasi stupito, ma la soddisfazione maggiore è stato poi scoprire, negli anni, che era stato capace di costruirsi uno stile suo, autonomo, e che dunque aveva fatto tesoro dell’esperienza maturata, arricchendola di cose sue e solo sue.
Oltre al taglio dell’immagine che mi piace pensare come al taglio di un abito su misura, che non fa grinze o pieghe e “cade” alla perfezione, gioco molto con il punto di messa a fuoco, che in genere è il punto della foto che uno vede per primo quando guarda un’immagine. Che sia in primo piano o sullo sfondo, il punto di messa a fuoco deve essere quella cosa su cui l’immagine deve fare leva per colpire l’attenzione. Se questo succede, poi, è come se tutto andasse a fuoco automaticamente, e tutto diventa chiaro.
La velocità è l’essenza del motociclismo, per cui è fondamentale per me riuscire a rappresentarla attraverso il movimento. Se un’immagine scattata in pista non trasmette il senso del movimento io penso che non sia del tutto completa: su questo argomento ho potuto confrontarmi per anni con Angelo Orsi, al quale devo tanto: tecnica, inquadrature, idee.
Abbiamo vissuto scrivania a scrivania in redazione, fianco a fianco sulle piste. La scuola di Angelo Orsi è stata importante più di ogni altra cosa, sotto questo profilo: se ci capitava di scattare in momenti diversi del weekend nella stessa curva e si andava poi a guardare le foto, ci accorgevamo che l’interpretazione a livello di inquadratura e taglio era quasi la stessa. La filosofia di fondo era la medesima, creare e trasmettere emozioni, cambiava lo stile con il quale ciò si realizzava.
Io amo da sempre lavorare con tempi lunghi, mi piace mettere sulla carta il movimento che prende forma nell’immagine. Angelo, invece, persegue l’immagine perfetta, incisa nei più piccoli dettagli, come un frammento di realtà fissato nel tempo, dove è possibile per chiunque osservi riuscire ad entrare e cogliere i minimi particolari. Ai tempi di Autosprint non ti dico quante discussioni e quante lotte su questo tema, col direttore Cavicchi in mezzo a fare da giudice e paciere. Alla fine la conclusione era che si aveva ragione entrambi, come è logico che sia, si tratta di due visioni della fotografia che sono perfettamente in grado di coesistere e fondersi, tanto che tutti e due abbiamo sempre messo in gioco il nostro stile verso esperienze differenti, io lavorando con tempi più brevi e Orsi allungando i suoi ( brano tratto dall’intervista del 2005, ndr ).
Per scherzare, ma forse un po’ ci credeva davvero, Orsi mi diceva che noi due facevamo lavori diversi e per dare alla sua affermazione un senso più compiuto diceva una cosa tanto banale quanto geniale, e cioè che a volte basta cambiare lato della pista per vedere le cose in modo completamente diverso.
Sto a fare foto da un lato della pista e riprendo le moto e i piloti da una parte e con una certa piega, con uno sfondo e delle luci con un certo angolo. Dopo un po’ mi stufo perché mi sembra di avere esplorato tutte le prospettive possibili? Perché non attraversare la pista e provare a vedere la stessa curva, la stessa piega, da una prospettiva diametralmente opposta? Questo modo di pensare e di vedere le cose ci ha sempre accomunati, anche per questo io ho sempre amato il suo lavoro e lui il mio. Perché per quanto fossimo diversi la passione in quello che facevamo era la stessa, oggi come allora.
Con l’avvento del digitale sono cambiate molte cose, alcune hanno portato benefici altre sono state davvero colpi bassi, ma quello che ha veramente stravolto il mercato dell’immagine è stata la rete, internet! Non si fa in tempo a finire di fotografare una premiazione che già ci si ritrova in sala stampa a visionare qualche migliaio di immagini per selezionarne un numero sufficiente da mandare ai media. Se uno pensa che il fotografo finisca di lavorare quando finiscono le prove o le gare, beh, si sbaglia di grosso. Inizia un altro lavoro, altrettanto difficile e importante, che sto ancora imparando.
Altra novità che ho dovuto accettare e imparare a utilizzare sono i social network, in primis twitter che ha un taglio più professionale. Oramai è la mia interfaccia principale con le persone, professionisti o semplici appassionati, che desiderano entrare in contatto con il mio lavoro. E’ uno strumento che piano piano sto scoprendo e apprezzando, fino a qualche mese fa non avrei saputo da che parte girarmi, ma con l’aiuto di Rafa, la mia compagna, e di Mauro, mio fratello, sono riuscito a organizzarmi in modo da tenere la mia pagina sempre ben aggiornata.
Poi, per finire, c’è la passione di famiglia a rendermi orgoglioso, perché oltre a mio fratello che ormai da anni collabora con me su alcune piste del motomondiale e della SBK, da un paio d’anni si sono aggiunti Filippo e Marco, i suoi due figli, i miei nipoti, che pare proprio abbiano anche loro nel sangue questo amore per la fotografia. Sono tutti e due sorprendenti nel loro modo di intendere l'immagine. Filippo assomiglia di più a suo padre, analitico e tecnico nella scelta delle inquadrature, razionale, Marco invece è più vicino al mio stile, estroso e un pò "pazzo", mi sorprende sempre! Per questo lo chiamo “diamante grezzo”.
La loro capacità di vedere e scegliere con uno stile personale il taglio e l’inquadratura di un’immagine, oltre che alla loro sincera passione, mi fanno credere che in entrambi ci sia del vero talento, una facilità a comprendere e padroneggiare i segreti della fotografia che li rende speciali ai miei occhi. Spero abbiano l’occasione e la tenacia per dimostrare queste loro doti, anche se la crisi economica che stiamo vivendo ha avuto ripercussioni molto pesanti sull’ambiente motoristico in generale e su tutto l’indotto – fotografia compresa – e pensarsi professionisti in un ambiente sempre più competitivo richiede una certa dose di rischio oltre che di preparazione ".
Bene, il viaggio in compagnia di Mirco Lazzari finisce qui, ma penso che se siete appassionati di fotografia ( non solo sportiva ) l’esplorazione del suo stile unico potrà continuare attraverso le sue pubblicazioni, il suo sito web, la sua pagina su Twitter e su Facebook. Io posso solo ringraziarlo per l’incanto e la poesia che riscopro ogni volta che ammiro le sue immagini, molte delle quali trovate nello spazio gallery associato a questo articolo. Buona visione a tutti!